E che dovrebbe dire la “rabbina più famosa d’America” con mamma coreana buddista?
Serena Danna
“Sul volto porto le tracce delle mie identità multiple”, afferma sorridendo la rabbina Angela Warnick Buchdahl seduta sul divano della hall di un hotel milanese. Mamma coreana buddista e papà ebreo americano, “Rabbi Buchdal” non è solo la prima donna a capo della Sinagoga più influente degli Stati Uniti, quella di New York (100 dipendenti a tempo pieno, un giro d’affari di 30 milioni di dollari), ma è anche la prima americana-asiatica a svolgere quel ruolo. Capelli corti, minuta, sguardo dolce, Angela è arrivata alla famosa Sinagoga centrale di Midtown dopo 13 anni di regno del rabbino settantenne Peter Rubinstein. Fino a quel momento, da ex studentessa e insegnante modello, non sapeva cosa fosse il sessismo. “Solo quando mi sono ritrovata a lottare per una posizione che nessuna donna prima di me aveva ottenuto – racconta –, ho capito che la facilità del mio percorso fino a quel momento era dovuto ad altre donne, che prima di me aveva sfondato quelle barriere”. Oggi la rabbina sente la responsabilità di essere una leader spirituale e religiosa nel secolo del radicalismo e della paura.
Nata a Tacoma, nello Stato di Washington, 42 anni fa, non devo solo convincere i giovani americani ad abbracciare l’ebraismo (dalla fine degli anni Cinquanta a oggi il numero di fedeli si è dimezzato negli Stati Uniti), ma vuole portare una civiltà impaurita dall’estremismo e delusa dagli scandali a riscoprire in che modo la religione possa essere usata “come forza del bene”.
Molti le chiedono se è consapevole dell’enormità della sfida: “Mi domandano dove trovo la gravitas per affrontare tutto questo, e quando nominano quel termine un po’ antico so che lo usano come sinonimo di maschio sessantenne”. Angela ha tre figli, un dato che chiama spesso una considerazione: “Chiederebbero mai a un rabbino maschio come fa a conciliare il suo impegno con la famiglia?”, taglia corto. “Mi dicono che non sembro un rabbino e so che dentro quell’affermazione si nasconde un pregiudizio maschilista”.