Intervista a Sami Michael sulle identità multiple e sul suo romanzo, Victoria, appena tradotto in italiano da Giuntina
Paola Caridi
La sua Baghdad non la vede da quasi sessant’anni, ma è un fiume – il Tigri – a rapire la sua nostalgia. “Mi manca. Mi manca quando esondava. O quando, al contrario, era in secca e si vedeva il fango sugli argini”, dice Sami Michael. Seduto nel salotto della sua casa di Haifa, in uno di quei palazzi che dal Carmelo si aprono sul Mediterraneo, guarda un’altra acqua, quella del mare grigio per la pioggia. Nascere vicino a un fiume, però, è diverso. “E’ nel Tigri che facevo il bagno, ed è su di un ponte sul Tigri che ho dato il primo bacio”. Non è un caso che quel ponte e quel fiume, dunque, siano sulla pagina che apre il suo romanzo forse più bello, Victoria, appena tradotto in italiano per i tipi della Giuntina. Su di un ponte scosso dalla folla e dal fiume in piena passa la protagonista che dà il titolo al romanzo, ebrea di Baghdad. Nascosta in un ampio velo nero in ossequio ai costumi sociali, e chiusa in un dolore indicibile per l’altro personaggio centrale del racconto, Rafael, l’uomo che – nel cortile della casa di famiglia che fa da palcoscenico a un’epopea familiare – rompe le usanze, porta la rivoluzione, segna l’apertura dell’ebraismo iracheno al nuovo.
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