David Piazza
Nel Midràsh Mekhiltà troviamo una singolare discussione tra Rabbi Natàn e Rabbì Itzchàk: dove venne apposto il sangue che agli ebrei venne chiesto di dipingere sugli stipiti, alla vigilia dell’uscita dall’Egitto? Rabbì Natàn sosteneva che era stato dipinto all’interno delle abitazioni, mentre Rabbì Itzchàk all’esterno.
Ci accorgeremo di come questo dettaglio abbia implicazioni profonde riguardo al forte messaggio su che cosa consista l’identità di un popolo che vive in minoranza tra altri popoli.
Innanzitutto sappiamo, dal racconto della Haggadà di Pesach, che un angelo inviato appositamente da Dio per punire gli egiziani e per salvare gli ebrei, passò oltre (“pasàch” – da cui uno tra i diversi significati del nome della ricorrenza) le case imbrattate con il sangue, segno che vi abitavano degli ebrei, e colpì invece le altre case, dove risiedevano gli egiziani. Tutti i primogeniti che si trovavano all’interno di quelle case morirono improvvisamente.
Solo a seguire il significato semplice del testo: abbiamo qui un primo segnale di una identità che viene manifestata. Stiamo già per dire che sicuramente il sangue era fuori, se non riflettessimo (e lo hanno già fatto per noi i nostri Maestri) sul fatto che un angelo non ha certo bisogno di “vedere” un segno posto dall’uomo. Lui sa che c’è, anche senza vederlo.