Un tentativo più onesto del film antisemita Kadosh per capire la complessità della legge ebraica, stavolta subita da cittadini che non l’hanno scelta. Viene furbamente omesso però il fatto che a parti invertite (con donna recalcitrante) la situazione sostanzialmente non cambierebbe (Kolot)
Paolo Mereghetti
C’è una sola informazione da sapere prima di lasciarsi andare alla visione di Viviane : in Israele non esiste il matrimonio civile, c’è solo quello religioso, e quindi il divorzio (che esiste) può essere ratificato solo da un tribunale rabbinico, che ha bisogno però del pieno consenso del marito. Fatta questa premessa si è pronti per entrare nell’aula di tribunale dove Viviane e Elisha Amsalem stanno discutendo del loro divorzio: o meglio dove Viviane chiede un divorzio che il marito non sembra intenzionato a concedere.
Gli antefatti e le ragioni dei due contendenti li scopriremo scena dopo scena, anzi rinvio dopo rinvio, perché la cosa chiara da subito è che il marito non vuole concedere il divorzio alla moglie, che pure vive ormai fuoricasa, dalla sorella, da tre anni. Niente, Elisha prima diserta le udienze, poi sceglie il silenzio o cerca ogni giustificazione possibile per rifiutare quello che Viviane cerca da diversi anni. E quando anche l’uomo accetta di farsi rappresentare da un avvocato — nel suo caso il fratello rabbino Shimon, mentre la donna ha scelto un avvocato che non mette la kippah (come a sottolineare la sua «laicità») — ed entrano in scena i testimoni chiamati dai due contendenti, lo scontro non diventa meno facile da risolvere, perché il quadro si allarga alla società, all’idea dominante di famiglia e alle sue regole non scritte.