Un estratto dal nuovo libro del filosofo francese Bernard-Henri Lévy «L’Esprit du Judaïsme» in uscita giovedì 4 febbraio per l’editore Grasset
Uno dei miei figli, cui faccio leggere qualche pagina di questo libro e che si meraviglia del mio modo di evocare, evitare, senza però invocarlo mai veramente, il nome del divino, mi pone la domanda che forse si porranno altri lettori: credi in Dio? A una domanda così diretta, rispondo altrettanto direttamente che non è lì il problema e che, in ogni caso, non si pone in quei termini.
Infatti, se tutto quello che ho scritto finora è, se non vero, almeno sensato, se il genio di Rashi, di Maimonide o di Giona somiglia a ciò che asserisco, se il Talmud è proprio quel getto di scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonata e riattivata a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevoli, di sensi costruiti o decostruiti, di enunciati ben articolati o bruscamente aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per adorare, ma per comprendere; e significa che il più alto compito al quale li convocano i libri santi non è di ardere d’amore, né di estasiarsi davanti all’infinito, ma di sapere e di insegnare.
Ricordo i testi di Levinas che accompagnarono i miei primi passi e che insistevano sulla grande ostilità del pensiero ebraico al mistero, al sacro, alla mistica della presenza, alla religiosità. Ricordo i suoi ammonimenti, ripresi da Blanchot, contro il grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la precedenza sugli obblighi verso gli altri, al punto di vista sull’etica, all’indiscrezione nei confronti del divino la precedenza sulla sollecitudine verso il prossimo. (…)