Grothendieck, il genio che racchiudeva arte, filosofia e impegno civile. La vita tormentata del matematico che ripudiò la scienza. Da Berlino ai Pirenei, passando per i campi di prigionia e la rivoluzione hippie Poi il rifiuto dei premi, la rivolta, la scelta dell’isolamento
Stefano Montefiori
Alexander Grothendieck, il genio della matematica morto a 86 anni il 13 novembre scorso, è stato un immenso scienziato, ma aveva ripudiato la scienza. Dalla Berlino dei rifugiati anarchici russi alla vita da eremita in un paesino dei Pirenei, passando per i campi di prigionia, il maggio del 1968 e la rivoluzione hippie, Grothendieck ebbe una vita tormentata e talvolta avventurosa, ma non usò mai le formule per rifugiarsi lontano dalla realtà. Come illustra il libro Matematica ribelle, in edicola con il «Corriere», preferì piuttosto rinunciare alla ricerca, quando ebbe la sensazione che il suo genio avrebbe avuto conseguenze pratiche incontrollabili, attraverso usi in campo militare che giudicava possibili e ignobili.
Alexander nacque il 28 marzo 1928 a Berlino, dove visse fino al 1933 con la mamma giornalista Hanka, il papà anarchico russo Sascha e Maidi, la sorella da parte di madre. Fu un periodo decisivo per la costruzione della sua personalità, e in positivo: «I primi cinque anni della mia vita rappresentano un privilegio di enorme valore. Dedicavo un’ammirazione e un amore sconfinati sia a mio padre che a mia madre», scrive nella sua monumentale autobiografia – pubblicata nel 1987 in tiratura confidenziale, ma oggi disponibile su Internet – Récoltes et semailles («Raccolti e semine»).
L’incanto venne interrotto dall’ascesa al potere dei nazisti, ma ancora di più dalla reazione dei suoi genitori: decisero di lasciare i bambini in Germania, e di trasferirsi in Francia. Poi parteciparono alla guerra civile in Spagna. Alexander raggiunse la madre solo nel 1939, quando restare in Germania da figlio di padre ebreo era ormai impossibile. Dopo l’occupazione nazista della Francia, suo padre venne deportato e morì ad Auschwitz. Al liceo Cévenol di Chambon-sur-Lignon il pastore Trocmé cercava di salvare quanti più studenti ebrei fosse possibile. «La polizia locale ci avvertiva quando stava per arrivare una retata della Gestapo – ricorda Grothendieck —, e allora andavamo a nasconderci nei boschi per una notte o due, in piccoli gruppi, senza renderci conto fino in fondo che non era un gioco, ma che si trattava della nostra pelle».
Alexander ottiene il diploma di Baccalauréat e va a Montpellier a studiare, finalmente, matematica all’università. Poi a Parigi, e infine a Nancy, dove incontra Laurent Schwartz, il più grande matematico del tempo. Qui arriva l’aneddoto che non può mancare nella biografia di un genio. «Io e Jean Dieudonné (altro grande matematico, ndr ) avevamo 14 problemi che non riuscivamo a risolvere – raccontò Schwartz —. Dieudonné propose a Grothendieck di sceglierne uno e di pensarci su. Pensavamo fosse uno spunto per anni di lavoro, ma dopo poche settimane Grothendieck tornò da noi con la soluzione di oltre la metà! Eravamo stupefatti».